domenica 23 ottobre 2011

CRITICHE

CRITICHE
Le opere di Lucia Di Miceli, sembrano riproporre il sentore di un ambiente astratto, dove sono inserite — a disturbo delle linearità — anche delle “circolarità lunari” o “solari”. Sembra, infatti, che l’astrazione e i contrappunti formati dalle linee della “logica formale”, con cui andrebbe diviso lo spazio dell’astrazione, sia quasi “fagocitato” dalla irruente presenza della circolarità, quale evocazione di un universo fantastico e femminile.
Le opere dell’artista, con l’intrusione del cerchio, danno una sensazione di come il femmineo psicologico entri e si sovrapponga, senza stravolgere, il campo dell’astrazione lineare.
Il fine è descrivere le stagioni, con equilibri di colori, in schemi a predominanza astratta.
Piani e linee, infatti, nei quadri di Lucia non sono imperanti, come nel movimento del formalismo astratto; nelle sue opere si segnala, infatti, l’irrompere della “materia colore” come costitutivo di un “sentimento”, e di un’accensione che nulla ha di formale.
Il racconto delle stagioni, che lei propone, mi piace ricercarlo non tanto nello spazio delineato dalle linee astratte, ma proprio dalle aree formate come contrappunti di colore e dettate dagli “umori” (o dal tipo d’“incidenza”) dei raggi solari, con cui viene colpito il “paesaggio” nei suoi elementi che — ancora una volta ricordo — solo per l’ambientazione richiamano l’ordine formale astratto. Nell’isola psichica circolare, o nella propria individualità, subito dopo, però, ogni quadro sembra trasformarsi in un’epifania ritratta in sé, e vestirsi dei colori delle diverse stagioni non-comunicanti che formano i vari insiemi di emozioni non-astratte, e richiamano le accensioni dei cicli della vita.
Ho l’impressione che ogni quadro sembra costruito con un tempo musicale di ¾, che mi evoca un ritmo di jazz o di rock and roll; sebbene lo sento chiuso in un tempo instabile, ne si può osservare la coerenza interna che va cercata nel gusto che esprimono quelle relazioni formali.
Con Lucia ci troviamo trasportati, così, all’improvviso, nello stesso ambiente, in un mondo dove sorge prepotente una topologia psichica, che ci annuncia ogni volta come sia nello stesso tempo stabile e instabile la nostra capacità di costruire un punto di vista coerente.
Tutto è determinato continuamente dallo spostamento di accento (o dal punto di vista che si sceglie) che, a seconda delle stagioni della propria psiche, ogni volta si è chiamati a riorganizzare e a dare la propria “impronta psichica” ai transiti e agli eventi, prima dell’avvento di un nuovo caos(nota 1). [(nota 1) Penso qui al libro di Ilya Prigogine e Isabelle Stengers, La nuova alleanza, Einaudi, Torino, 1981, dove questi due scienziati e filosofi descrivono l’“universo fisico” in continuo mutamento, e composto secondo le trasformazioni della materia-energia in strutture dell’ordine, del disordine e della riorganizzazione.]
Altre opere di Lucia annunciano l’organizzazione di nuovi racconti, che si dischiudono alla sua visione. L’immaginazione del proprio femminile pervade ormai le sue tele, ha alienato il campo astratto e si trasmette ai pianeti, allo spazio che ci circonda, e parla ora il linguaggio simbolico, a partire dal suo “vortice”, che sembra attrarre la materia verso un buco nero. La materia qui è rappresentata da figure di triangoli con lati curvi, con archi ricavati da ellissi, anziché da segmenti retti. Questa materia è proveniente da un altro tipo di forme, da un’astrazione che è quella che si costruisce con le geometrie non-euclidee; e, in effetti, alcuni di questi triangoli sappiamo che sono sorti dalle superfici di piani curvi, che fanno collegare queste forme alla meditazione di oggetti yantra(nota 2) [ (nota 2) Penso qui allo Sryantra («grande Oggetto») della tradizione geometrica indiana usata in modo vario per la meditazione, proveniente proprio dalla tradizione tantrica dell’India. Lo Sryantra («grande Oggetto»), infatti, consiste in uno schema intricato di poligoni, triangoli, cerchi e linee, tutte centrate su un unico punto centrale (bindu).], e presenti anche in alcune opere del famoso artista olandese Maurits Cornelis Esher.
Geppino Siani

La follia rende amabili le donne” parafrasando Erasmo da Rotterdam, aggiungerei che è l’energica tensione che anima la follia, a renderle così eteree quanto determinate.
Chi conosce l’autrice sa di questa sua spregiudicata qualità. Le sue opere, allo stesso modo sono intrise di energia e determinazione, caratteristiche queste, che le consentono di avere pieno dominio sia sulla tecnica, raffinata ed elegante, che sulle tematiche, spesso affrontate con disinvolta naturalezza, che passano contemporaneamente dai paesaggi alle astratte geometrie.
Un elemento ricorrente con chiara allusione alla luna, diventa ( il leit motiv) un simbolo unificatore del linguaggio narrativo.
La luna è una presenza costante nella vita e nell’immaginario degli uomini. La luna rappresenta l’energia femminile, degli umori, dei cambiamenti, del mondo sommerso e profondo che si contrappone al potere maschile, razionale, illuminante del sole. Una luna che l’autrice trasforma in metamorfosi solari nel “ciclo delle stagioni”, o in nucleo generatore avvolto da cromatismi Kandinskyani, nell’astratto “brodo primordiale”.
Stessa funzione hanno i fondi molto scuri, volutamente non neri, evocatori di misteriosi universi in cui fluttuano figurazioni e astrattismi di chiara memoria Kleeniana.
L’autrice riesce a trasformare, soprattutto nei paesaggi, le fredde atmosfere lunari, in caldi cromatismi mediterranei della sua terra, adottando un linguaggio semplificato nella forma e nel colore senza però scadere In facili naifismi.
La stessa sintesi linguistica viene utilizzata nelle astrazioni, dove le compatte campiture delle superfici, sapientemente modulate, non danno spazio alle ombre che affiorano solo raramente, in qualche piccolo dettaglio per simulare il volume. Un volume che diventa spazio senza incertezze prospettiche, come solo un architetto sa fare, e tradisce la formazione dell’autrice, che dice di amare la scultura più di ogni altra cosa.
Le opere di Lucia Di Miceli rappresentano un momento importante di una ricerca artistica rigorosa e complessa che si è sviluppata nel tempo, in linea con la vivace personalità creativa dell’autrice, sempre pronta a mettersi in discussione, restia a facili compiacimenti.
Tale ricerca è l’espressione di un vissuto in cui l’arte ha avuto sicuramente un ruolo significativo. L’autrice ha dimostrato di conoscere la lezione dei maestri che hanno segnato la storia dell’arte, dalle prime espressioni rupestri fino alle avanguardie del Novecento, ma non per questo le sue “citazioni” sono ridondanti o scontate, al contrario emergono di tanto in tanto labili tracce di quelle memorie, filtrate attraverso una efficace rielaborazione personale.
Le tele della Di Miceli sono abitate da atmosfere surreali in cui “l'io” interiore in piena libertà, si libera dai meccanismi inibitori e dalle catene dalle quali è avviluppato. Ma allo stesso tempo ci inducono a cercare l'essenza della realtà al di la dell'esperienza sensibile, sciogliendo i nessi che legano gli oggetti ai loro luoghi naturali di appartenenza.
Un gioco di alternanza percettiva in cui lo spettatore deve per forza immergersi se vuole godere delle sensazioni che esse emanano.
Nicola Di Pietrantonio

Imago feminae.
Un racconto visivo, sulla linea immaginaria della Storia, fatto di volti e di sguardi al femminile che a loro volta ci parlano della bellezza della libertà e della libertà di pensiero.
In questa breve frase è racchiuso lo spirito dell’esposizione di Lucia di Miceli, artista siciliana di nascita, che ha cercato l’anima nei ritratti e, implicitamente, ha realizzato un mosaico di visi-icone inteso quale visualizzazione del suo mondo interiore e del suo status di artista e di donna.
Dietro una faccia o un’espressione si nasconde sempre una storia, anzi il volto, quando diventa icona (prendiamo fra tutte la celebre foto del Che), è veicolo di significati ben più profondi: idee, ideologie, lotte, ambizioni, sogni, inclinazioni.
Le Libere Donne di Elle” (dove elle sta per Lucia) è ricalcato sul titolo del romanzo autobiografico di Mario Tobino, Le libere donne di Magliano, tra i libri più cari all’artista Di Miceli per la sua forza nel raccontare il mondo interiore di una serie di donne dell’ospedale psichiatrico di Lucca, donne che hanno amato troppo e che per il troppo amore sono finite tra le mura, rinchiuse eppure libere perché la libertà risiede pur sempre nel pensiero. Il romanzo si articola su una serie di ritratti di donne, personaggi reclusi e reietti e apparentemente senza storia: sono ritratti rapidi e intensi, nei quali si trova l’alienazione ma anche una profonda intrinseca umanità, ed è proprio ai ritratti, intesi quali forma rappresentativa del corpo per eccellenza, che l’artista guarda nella realizzazione di questa esposizione.
La tecnica è immediata e suggestiva:i ritratti vengono riprodotti esattamente, distaccati dal loro contesto-sfondo, e infine solarizzati manualmente in virtù di un processo che estrapola le ombre, le opacizza, e ne inverte la cromia fino a rendere l’immagine un negativo ottenuto non con processi meccanici bensì con la perizia tecnica.
L’artista nel far questo sembra quasi prendersi cura dell’immagine e, intervenendo personalmente nella riproduzione, compie un atto di amore e di comprensione verso l’arte e verso il soggetto. E i soggetti non sono ripresi solo dalla storia dell’arte e della civiltà bensì arrivano fino ai giorni nostri; in questo caso abbiamo figure di donne care a Lucia (la figlia, i familiari, lei stessa) che ricevono lo stesso trattamento delle altre tele: i colori preziosi (indice della preziosità del pensiero), l’oro dei volti, linee di forza che seguono sempre le inclinazioni dei volti e ripartiscono il piano dividendo i visi, come se questi possano essere spartiti affinché ci mostrino due anime diverse.
Mito, arte, letteratura, scienza e vita vissuta convivono in una mostra intesa quale unica installazione che, sebbene segua il filo cronologico della Storia (un ritratto per ogni periodo storico e per ogni secolo, dal 1200) segue anche Il filo interiore della vita intellettuale e personale, fatta di incontri reali e immaginari, di letture e parole, di impressioni e sentimenti.
Dieci quadri e molti altri ritratti (la serie è completata da fotografie) intesi quali punti di riferimento; tutte donne accumunate dalla libertà di pensiero e di azione che diventano icone personali nel momento in cui entrano nella vita dell’artista. Donne che hanno segnato la sua formazione, in quanto esempi positivi, (poetesse, filosofe, sportive, scienziate, combattenti), celebri donne e modelle dell’arte (la Nike, la Venere di Milo, l’Annunciata di Antonello da Messina, la Ragazza col turbante di Vermeer, la Venere del Botticelli e Czechovska di Lunia di Modigliani), donne della sua vita (figure per noi anonime ma significative per la pittrice).
Arte e fotografia ma prima di tutto immagine di visi poiché, come spiega Pavel Florenskij, nel celebre saggio Spazio e Tempo nell’arte: “la costruzione geometrica di un volto e in generale di una persona, la loro forma spaziale, esprimono esternamente la complessa correlazione fra tutte le forme interiori e le attività dell’organismo”. E ancora: “La rappresentazione di tre quarti esprime la vicinanza al fruitore di colui che è rappresentato….se la rappresentazione frontale si confà ai santi e quella di profilo agli uomini di potere, la rappresentazione di tre quarti appartiene soprattutto alle bellezze….questa è perciò l’angolazione per eccellenza della femminilità, o, più esattamente, l’angolazione femminile…..”
L’idea non è quella di tracciare un percorso di glorificazione delle icone del femminismo, applicando categorie sdoganate a sufficienza negli anni ’70, non vi è pertanto spirito critico o polemico, bensì la volontà di mostrare volti e di mostrarsi attraverso quei volti in un percorso visivo e storico, interiore e esteriore, dove le opere singole concorrono a creare un’unica e intima installazione (se fosse un film sarebbe caratterizzata da un frenetico montaggio).
E’ il tentativo, da parte della pittrice, di porre il proprio vissuto in relazione con tali figure e, naturalmente, l’omaggio, per nulla retorico, a queste silenziose e fondamentali guide nelle quali specchiarsi per affermare e ritrovare se stessi.
Anche se appare difficile porsi in relazione, con continuità e coerenza, con i loro esempi l’arte è pur sempre un punto di partenza (o di arrivo?) e pertanto l’esposizione vuole essere una personale e sentita ricapitolazione sulla propria vita e sul proprio fare artistico. Un momento di riflessione dal quale ripartire.
Forse la mostra più coinvolgente per l’artista stessa la quale entrando si trova davanti non a quadri e a fotografie ma a una miriade di specchi che riflettono i suoi mille volti, il suo unico volto che si giova degli insegnamenti di tutte queste figure. Eroine. Imago feminae.
Tommaso Evangelista






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