La vita non è quella che si è vissuta ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla. (Gabriel Garcia Marquez) Libera autobiografia per immagini di Lucia
martedì 26 febbraio 2013
venerdì 22 febbraio 2013
Voglio un amore
Voglio un amore doloroso, lento,
che lento sia come una lenta morte,
e senza fine (voglio che più forte sia della morte)
e senza mutamento.
Voglio che senza tregua in un tormento
occulto sian le nostre anime assorte;
e un mare sia presso a le nostre porte,
solo, che pianga in un silenzio intento.
Voglio che sia la torre alta granito,
ed alta sia così che nel sereno
sembri
attingere il grande astro polare.
Voglio un letto di porpora, e trovare
in quell'ombra giacendo su quel seno,
come in fondo a un
sepolcro, l'Infinito.
Gabriele d'Annunzio
mercoledì 13 febbraio 2013
Nuvole
Un racconto per ragazzi
a Federica, mio immenso amore, e a Francesco, ovunque tu sia.
Il cavallo correva, leggero e libero come una nuvola, la sua
immagine si stagliava sui profili delle colline. Correva controluce ed era una
presenza viva ed integrata nella natura incontaminata. Cambiava colore con il cambiare
del tempo, con l'alba, il tramonto e con il susseguirsi delle stagioni.
Correva, correva e non aveva padrone. Mangiava erba e quando si fermava i suoi
occhi riflettevano i panorami della campagna. Tra la folta criniera aveva una
rosa.
Due bambini giocavano in riva ad un torrente. Francesco
aveva portato una barchetta a vela e Federica si divertiva a lasciarla
scivolare sull'acqua. L'avevano legata ad un filo, così ogni volta che con la
corrente s'allontanava potevano riportarla a riva. Si sdraiavano sull'argine
del torrente e, con la testa in giù, osservavano lo scorrere dell'acqua, la
vita al suo interno. Cercavano di prendere gamberetti o piccoli pesci che con
guizzi veloci sfuggivano comunque alla loro presa. Ridevano dei loro giochi
semplici.
Avevano la fortuna di vivere in un piccolo paese alle
pendici di una montagna altissima, dove l'aria era sempre pulita e fresca.
D’inverno si ammantava di neve, ma a primavera, gli alberi ed i prati si
riempivano di mille colori e profumi e le automobili sfrecciavano lontane,
sulla statale che portava lontano. Ogni tanto guardavano il cielo azzurro,
seguivano le nuvole con lo sguardo e cercavano di interpretare le figure che
assumevano. Ora gli sembravano dei draghi, ora delle bolle di sapone e ancora
delle facce buffe. Il mutare così repentino, l’allontanarsi, il trasformarsi,
delle nuvole, li affascinava e passavano delle ore a seguirle. Il pesco fiorito
si rifletteva nell'acqua del torrente, a formare l’immagine di un quadro, ed i
bambini, con piccoli rami, agitavano l'acqua per formare nuovi e strani
disegni.
Nel silenzio di quella fresca mattina di primavera,
all'improvviso, sentirono un rumore di zoccoli. Si voltarono, la loro sorpresa
fu grande, il cavallo li guardava, lucido per la corsa, scuoteva la testa e
nitriva, sembrava sorridere. Si alzarono lentamente, timorosi si avvicinarono,
tesero la mano, e il cavallo abbassò la testa affinché potessero accarezzarlo.
Con stupore notarono la rosa tra la criniera. Era una rosa particolare, di un
colore che i bambini non sapevano definire e cambiava con i movimenti della
testa del cavallo, ma la cosa più straordinaria era il profumo che emanava, un
profumo unico, di vento e di libertà. Il cavallo stesso sembrava essere lo
spirito del vento.
“Come si chiamerà?”
Si chiesero i bambini. Poi fu Federica ad avvicinarsi, senza timore, e, come
ispirata domandò “Ti chiami … Libero?”.
Il cavallo mosse nuovamente
la testa, come per annuire, si piegò sulle zampe anteriori e con un
movimento rapido li invitò a montarlo. Salirono senza alcuna difficoltà, Francesco afferrò saldamente la criniera e
Federica salì dietro.
Libero cominciò a camminare prima piano e poi subito al
galoppo correndo lungo la valle.
Ai bambini, felici,
sembrava di volare.
Lasciarono rapidamente la montagna scesero lungo le dolci
colline, attraversarono pianure, ponti,
vicoli stretti di paesi a loro sconosciuti, con un fragore di zoccoli sulle
antiche pietre. Si infilarono in boschi
straordinari e fitti di vegetazione, tra incredibili sfumature di colori e
suoni, canti mai uditi, voci di uccelli variopinti, che volavano
bassi fino a loro e poi con un impennata risalivano per scomparire tra le
foglie. I raggi del sole bucavano le
fronde degli alberi ed illuminavano la rosa, del cavallo, tra la
criniera, al vento.
Giunse la notte, una notte serena illuminata da milioni di
stelle. Arrivarono in riva ad un lago e, in lontananza, sui colli, si scorgevano le luci dei paesini
arroccati. Libero si fermò vicino ad un albero dalle fronde larghe, un albero
da frutta, e si avvicinò, in modo che i bambini potessero raccogliere quei
frutti succosi e poi, lentamente, li fece scivolare dalla groppa. Francesco e
Federica mangiarono con avidità e soddisfazione e subito si addormentarono, tenendosi per mano. Libero, in
piedi, accanto a loro, con il muso basso, vegliò il loro sonno tranquillo.
Quella notte fu breve, sembrò trascorrere in un soffio.
Al primo sorgere del sole, in un cielo velato di rosa i
bambini si svegliarono e sorrisero al loro nuovo amico, pronti a partire per un
altro viaggio, per un’ altra straordinaria avventura.
Osservavano, con meraviglia, tutto quello che il loro
sguardo, lungo la corsa, riusciva a cogliere, non c'era bisogno di parole,
tutto era perfetto e fantastico, la natura appariva loro ancora più bella di
quanto non fossero già abituati a conoscerla.
Correvano tra prati verdi, pieni di fiori profumati e
colorati, attraversavano altri paesi e
le persone che incontravano sorridevano e li salutavano, come se il loro
passaggio fosse del tutto naturale ed atteso.
In lontananza scorsero il tracciato di una grande strada, si
distingueva perché il verde dell’erba
era diverso dal verde dei prati circostanti.
Più si avvicinavano
più la strada diventava larga, immensa e maestosa. Francesco, in un lampo, capì
dove erano giunti, perché improvvisamente si ricordò dei racconti del nonno,
le sere d'inverno, seduti davanti al caminetto.
“Guarda Federica
quello è un tratturo! Ricordi? Il nonno ce ne ha parlato molte volte!”
Il nonno, con la pipa di terracotta e di canna, raccontava
dei lunghi viaggi, che ogni anno affrontava, su quelle grandi strade d'erba.
Non tralasciava nessun dettaglio, perché parlava della sua
vita, del suo lavoro, delle sue origini, la storia del suo popolo. “Partivamo ai primi freddi dell'autunno con
le nostre greggi, lasciavamo a casa le mogli, i figli, ma soprattutto il cuore
e, dalle nostre montagne, scendevamo alle pianure dove trovavamo un clima più
mite ed erba fresca per i nostri animali. Anno dopo anno, giorno dopo giorno”- raccontava il nonno. “ripetevamo sempre gli stessi gesti e percorrevamo gli stessi paesaggi.
La mattina, all'alba, mungevamo le pecore che si accalcavano e belavano
continuamente, come se sentissero la necessità di liberarsi del latte fresco e
odoroso che abili mani avrebbero presto trasformato. Poi un pò di pane duro,
bagnato nell’acqua, e un pezzo di formaggio. Vostra nonna, prima di partire,
metteva nel mio tascapane anche qualche pezzo di lardo e di salsiccia, ma li
mangiavo solo qualche volta, magari in un giorno di festa. La pensavo sempre e
avevo una grande nostalgia, sola ad accudire i figli e la casa, a fare tanti
sacrifici, per mandarli a scuola e vestirli la domenica come principini.”
Ricordavano, ora, i bambini quei racconti che uscivano dalla
bocca del nonno, quasi con sofferenza, ogni tanto, infatti, si stropicciava gli
occhi con il dorso della mano e loro abbassavano lo sguardo, fissavano il fuoco
e per un pò c'era silenzio. Poi il nonno riprendeva con i ricordi. “La sera si riportavano gli animali negli
stazzi e noi pastori, ci radunavamo per accendere il fuoco e preparare una
minestra calda, fatta con le poche verdure, raccolte ai margini dei tratturi.
Avvolti nelle nostre cappe, coperti con i cappelli a larghe falde, ripetevamo
gli stessi gesti, una carezza ai cani, a volte, se la stanchezza non era
troppa, si raccontava qualcosa, storie di fantasmi o di streghe. Oppure un
pastorello suonava uno zufolo, appena intagliato, e poi a dormire, accovacciati
sotto l’ombrello per ripararci dalla rugiada,
mentre il fuoco lentamente si spegneva.
Ma il sonno dei più anziani non era mai tranquillo, c’era sempre qualcuno che dormiva con un occhio solo, per controllare le
pecore e gli asini”.
La corsa di Libero continuava. Ora lungo il tratturo, ora
tra valli. Ogni notte si fermavano sotto il cielo stellato ed infinito,
colorato di un blu intenso e profondo, e non avevano mai paura. Anche la
notte regalava loro cose e creature fantastiche da scoprire, incontrare e conoscere.
Ancora i bambini ricordavano i racconti “Quello che noi facevamo ogni giorno,
l'avevano già fatto i nostri padri e prima ancora i nostri antenati, i Sanniti.
Un popolo eccezionale, fiero, orgoglioso. Certo erano soltanto dei poveri
pastori, e sono stati proprio loro ad insegnarci a fare i nostri grandi formaggi,
ma erano anche pronti a difendere il loro territorio e per questo furono anche
dei grandi guerrieri. Sapete bambini, quando avevo un po’ di tempo, tornando a
casa, mi facevo leggere, da vostro padre, i suoi libri di storia. Tre guerre
hanno combattuto, i Sanniti contro i Romani, ma questi erano molto più forti e
alla fine li hanno sconfitti e di loro, ormai, non restano che poche tracce.”
“Ma nonno, noi
l'abbiamo visto un Sannita!” rispose prontamente, una volta, Francesco “ siamo andati a fare una gita e abbiamo visitato una antica città
romana e, su una grande porta di pietra, abbiamo visto un uomo incatenato. Papà
ci ha spiegato che l'avevano scolpito proprio i Romani per mostrare a tutti che
quel popolo era stato sottomesso.”
“Già…” riprendeva
il nonno “....sottomesso, ma la voglia di
essere indipendenti, montanari e fieri è rimasta e ce la porteremo dentro per
sempre. Anche voi due dovrete sempre essere fieri della vostra terra…quella
grande porta di cui parlate era stata costruita proprio su di un tratturo…era
l’ingresso ad Altilia..., ed io ci sono passato tante volte con le mie pecore,
....”
Poi recitava alcuni versi di una poesia, ma li sussurrava
quasi sottovoce, come se, in fondo, appartenessero solo a lui, “...e vanno per tratturo antico al piano; quasi
per un erbal fiume silente, sulle vestige degli antichi padri... pensate, anche un poeta ha scritto dei miei
tratturi, ora non ricordo più il suo nome, voi lo studierete sicuramente a
scuola, era di un paese lontano dal
nostro, ma doveva avere un grande rispetto...”
I giorni si susseguivano, i paesaggi che attraversavano
erano bellissimi. Federica e Francesco, si nutrivano di vento. Erano dimentichi
di tutto, della famiglia, dei compagni, sembrava vivessero in un'altra
dimensione. Quando incontravano altri animali o altri cavalli li salutavano
gioiosi, scendevano dalla groppa di Libero e si fermavano a parlare con quei
nuovi amici, in uno strano linguaggio che solo loro erano in grado di
comprendere. A volte altri cavalli li affiancavano nella loro corsa e via tutti insieme, nel vento e nella
libertà.
Ad un certo punto del loro viaggio, il paesaggio cambiò,
cominciarono a costeggiare una grande strada asfaltata, le macchine vi
sfrecciavano in un assordante rumore che riecheggiava anche a distanza e poi, in lontananza,
cominciarono a scorgere tante torri dalla cui cima uscivano strani fumi, grigi,
gialli, densi. Più si avvicinavano e più i bambini si meravigliavano delle
strane cose che si presentavano ai loro
occhi.
Libero e gli altri cavalli, rallentarono la corsa, ora si
trovarono a camminare al lato di una strada di ferro. Improvvisamente passò un
treno, sollevando polvere e detriti.
Erano, intanto, giunti alla periferia di una grande città,
piena di luci, di automobili e di strane persone che correvano e non avevano
neanche il tempo di salutarsi, o fermarsi a scambiare qualche parola. I cavalli
ora camminavano lentamente, Federica
stringeva forte la vita di Francesco. Erano circondati da tante macchine
e non essendo abituati al troppo fumo, che usciva da esse, tossivano. C'erano
sacchi di rifiuti accatastati vicino ai cassonetti dell’immondizia, dappertutto
si sentiva un cattivo odore. Francesco e Federica camminavano con il naso
all'insù, le case erano molto alte, con tante finestre, alcune totalmente prive
di balconi, neanche un fiore alle
finestre, enormi scatole, tutte uguali, tutte grigie.
Arrivarono ad un ponte e scorsero il fiume che attraversava
la città come una ferita infetta. Aveva uno strano colore, completamente diverso dal loro torrente. Camminarono ancora
in cerca di un passaggio per scendere verso l'argine del fiume.
Le persone che attraversavano le strade sembrava non si
accorgessero di loro. Nessun sorriso, nessun saluto. I bambini si stringevano
sempre di più al loro cavallo. Si fermarono finalmente vicino al fiume
dall'acqua giallastra. Notarono che anche il colore del corpo e della criniera
di Libero non era più lo stesso. Era opaco e la rosa nella criniera aveva perso
i suoi meravigliosi riflessi, non profumava e sembrava stesse appassendo.
Libero ed alcuni dei cavalli che li avevano seguiti, si abbeverarono all'acqua
gialla del fiume e, non avendo altro di cui nutrirsi, mangiarono sassi, chiodi e lamiere che
stavano sparsi lungo l'argine. A stento i bambini trovarono un posto pulito
dove sedersi. Attesero la sera quasi senza parlare, la notte trascorse senza
stelle, illuminata solo dal chiarore di luci fredde e disturbata dal fragore di
troppe automobili che sfrecciavano sulla strada sovrastante. La mattina
seguente, con grande stupore, si accorsero che i cavalli si stavano
trasformando. Sembrava che una lamiera d' acciaio li stesse ricoprendo e quando
le mani di Francesco tentarono di aggrapparsi alla criniera si rese conto che
questa si era mutata in tante lamelle, sovrapposte ed imbullonate e i loro
occhi erano freddi, immobili, di
metallo, i loro denti dei bulloni. I bambini, molto tristi cominciarono ad
avere paura, ad avere nostalgia della loro casa e, piangendo, chiesero a Libero
di portarli subito via da quel posto che aveva un aria che pizzicava la gola.
Tornarono indietro per ritrovare la strada della periferia.
Lunghe colonne di macchine occupavano le strade, c'erano semafori ad ogni
angolo, vigili con il fischietto agitavano le mani e incitavano tutti a
correre, a non fermarsi.
Libero e gli altri ritrovarono, infine, una strada per uscire da quel posto
che sembrava aver fatto loro un sortilegio. Scorsero un prato, ma, per quanto
tentassero di piegare i loro corpi imbullonati, i cavalli non riuscivano più a
mangiare l'erba perché erano diventati d'acciaio. Anche quando camminavano
erano lenti, impacciati, e facevano un rumore metallico.
Vicino al prato videro una grande pista e tante macchine
sportive allineate. Stava per svolgersi una gara. I cavalli percepirono,
subito, nell'aria l'odore della competizione, avvertirono un fremito, nitrirono
insieme, si misero in circolo e cominciarono a muoversi nervosamente. Libero
lasciò che i bambini scendessero e si unissero alle altre persone radunate per
assistere alla gara.
I cavalli d'acciaio che, improvvisamente, avevano ritrovato
parte della loro mobilità, raggiunsero le automobili. C'e ne erano di
diverse forme e colori, ed i loro motori rombavano, impazienti di sfrecciare
sul nastro d'asfalto. Libero e gli altri si allinearono su un lato della linea
di partenza e quando lo starter, con un colpo di pistola in aria, dette il via
alla corsa, scattarono insieme alle macchine. Più veloci dei bolidi, di lamiera
e gomma, correvano verso il traguardo. I giri si susseguivano. Dieci, venti,
trenta, i cavalli erano ormai in testa, la gente incredula, cominciò ad
incitarli ed i piloti, dimentichi della loro competizione, cercavano soltanto
di raggiungerli, aumentando sempre più la loro velocità, ma tutto era vano.
Alcuni furono costretti a fermarsi perché avevano fuso il motore o avevano
finito il carburante o addirittura perso dei pezzi.
Quaranta giri. La gente, sorpresa, ma completamente
coinvolta in quella strana situazione, applaudiva, incitava i cavalli,
sembravano tutti impazziti. Francesco e Federica, senza mai lasciarsi la mano,
ma urlando anche loro, il nome di Libero, avevano cominciato a sperare di aver
ritrovato i loro amici di prima. Quando tutte le macchine furono fuori gara ed
i cavalli celebrati in tripudio mai visto, per la loro vittoria straordinaria,
Libero, fu premiato con un’ enorme corona di alloro sul collo.
Come se nulla fosse successo, seguito dagli
altri cavalli, prese nuovamente in
groppa i bambini e corse via. Man mano che andavano avanti i prati diventavano
sempre più verdi, l'erba più alta e l'aria più pulita. Francesco poté sentire e
stringere nuovamente la criniera morbida e folta, di Libero, sotto le sue mani.
Gli ultimi bulloni cadevano, le armature
si disfacevano, finalmente sentivano tutti di poter respirare a pieni polmoni.
Tornarono ad essere cavalli senza più costrizioni, senza pesi, senza
limiti.
Nuovamente liberi, corsero per molto tempo. Passò un'altra
notte ed i bambini rividero le stelle che conoscevano così bene. Sdraiati, sul prato, con i cavalli intorno,
le dita puntate contro il cielo, cercavano
le stelle , Venere, l'Orsa Maggiore e quella Minore,... Adesso ridevano
felici e i ricordi del nonno tornavano alla mente ancora più vivi. In loro
sarebbero rimasti scolpiti per sempre .
Le immagini si confondevano, ora erano dei campi verdi,
delle distese immense di margherite e di steli alti dei cardi che pungevano il
muso delle pecore brucanti. La figura immaginata del nonno ragazzo, seduto su
uno sgabello a tre piedi, l’ombrello
poggiato per terra, gli occhi vigili. E ancora quel profumo di
primavera, ma la fatica di ogni tappa lunga almeno 15 chilometri. Le
soste vicino ai torrenti, la preparazione del formaggio. Quel pecorino dal
sapore così buono tra il pane fragrante che la mamma gli preparava come merenda
per la scuola, Francesco ebbe come una stretta al cuore. Tra poco avrebbero
ritrovato tutto questo, suoni, profumi, sapori e affetti di casa. Attraversando
nuovamente i Tratturi, riconobbero le erbe, i cespugli, che crescevano unici
lungo quelle fantastiche strade. Le verdure delle semplici minestre dei
pastori, e a volte anche la carne di qualche pecora vecchia o azzoppata, messa a bollire con un pò di
sale e cipolla.
Una mattina limpida e profumata giunsero infine al loro
torrente. Tutto era rimasto come l'avevano lasciato, il pesco fiorito, l'acqua
limpida e trasparente, teneri e freschi fiori gialli lungo le rive, c'era
perfino la barchetta a vela inclinata su di un sasso, Francesco l'afferrò e la
strinse al petto come se avesse ritrovato un tesoro. Federica saltellava
allegra, felice mentre odorava e riconosceva l'aria di casa.
Improvvisamente i cavalli cominciarono a girare in tondo,
Libero nitriva e alzava il muso, ora si muovevano come su di una giostra.
Andavano sempre più veloci, poi, come per incanto, spuntarono loro delle ali bianche e
trasparenti e attratti in un vortice, cominciarono a salire verso il
cielo.
Volavano alti, ormai lontani dallo sguardo stupefatto dei
bambini. E più salivano verso il cielo e
più si trasformavano in nuvole. Nuvole candide a forma di cavallo. Il volto dei
bambini, spaventati, andava lentamente distendendosi e cadendo in ginocchio sul
prato, ma senza mai togliere lo sguardo dal cielo, compresero il miracolo.
Allungarono la mano per salutare per un'ultima volta i loro
amici, ma poi stringendola avvertirono un piccolo dolore. Aprendo piano il
palmo vi ritrovarono la rosa fantastica della criniera di Libero, ma ora aveva
delle piccole spine e queste fecero uscire alcune gocce di sangue.
Allora quel loro strano ma fantastico viaggio non era stato solo un
sogno! Un’esperienza fantastica da conservare per sempre nei loro cuori e da
ricordare ogni volta che con lo sguardo avrebbero seguito il mutare delle forme
di una nuvola.
Il sole stava lentamente tramontando e l'aria cominciava a
diventare fresca. Francesco prese la sua barchetta, la mano di Federica ed
insieme, guardando un'ultima volta il
cielo, si avviarono verso casa. Adesso anche loro avevano qualcosa da
raccontare al nonno.
Quella stessa sera, con la sua solita pipa di terracotta in
mano, attento al racconto e all’intrecciarsi delle emozioni dei bambini, muto e
con lo sguardo sulla fiamma del camino, il nonno ebbe finalmente la certezza
che nulla, proprio nulla, nella sua vita, era stato vano.
Lucia Di Miceli - Gennaio 2007
Nella tua mano
Una notte magica
ho
preso la tua mano
e l'ho
baciata dolcemente.
Conservami nell'incavo
e non
ti lascerò mai.
Aprila e ti guarderò
chiudila e ti stringerò
aprila di nuovo e ti sorriderò
stringila forte e ti penserò.
Falla scivolare sul tuo viso
e sentirai la mia carezza
mettila in tasca e sentirai il mio calore
passala tra i capelli
e le mie dita scivoleranno tra loro.
Posala sul tuo cuore
e sentirai il mio amore.
Contatti
sabato 9 febbraio 2013
venerdì 8 febbraio 2013
Yacek Yerka
Straordinario surrealismo
Pittore surrealista contemporaneo nato a Torun in Polonia
nel 1952, ora vive e lavora con la sua famiglia, in un enclave rurale
della sua nativa Polonia. Inizia con lo studiare Storia dell'arte e
segue corsi di grafica, poi si dedica alla pittura nel 1980. Dipinge
(dapprima solo su tela con olio e acrilico) con meticoloso realismo (
stile fiammingo ). Nei suoi lavori s'intravvede la pastorale atmosfera
della campagna polacca, che però fa da base non strutturale, difatti la
magia sognante di Yerka s'ispira ai pittori e personaggi del 15° e
16°secolo : Cagliostro. Hieronymus Bosch, Pieter Bruegel, Hugo van der
Goes e Jan van Eyck , e anche il moderno Magritte: una magia che in
lui è fatta di cultura, grande immaginazione e simbolismo. Dice di se :
"Sono nato a Torun (città nel nord della Polonia) nel 1952. I miei
genitori hanno studiato presso la locale Accademia di Belle Arti. Così
sono venuto al mondo con un doppio speciale patrimonio artistico . I
miei primi ricordi profumano di vernici, inchiostri, carta, gomme e
spazzole. La nonna giocava con me nel suo appartamento e poi insieme
andavamo a passeggiare nei boschi, era un angelo amoroso e mai mi parlò
alzando la voce.
giovedì 7 febbraio 2013
Tu sei per la mia mente
Tu sei per la mia mente, come cibo per la vita.
Come le piogge di primavera, sono per la terra.
E per goderti in pace, combatto la stessa guerra
che conduce un avaro, per accumular ricchezza.
Prima, orgoglioso di possedere e, subito dopo,
roso dal dubbio, che il tempo gli scippi il tesoro.
Prima, voglioso di restare solo con te,
poi, orgoglioso che il mondo veda il mio piacere.
Talvolta, sazio di banchettare del tuo sguardo,
subito dopo, affamato di una tua occhiata.
Non possiedo, né perseguo alcun piacere,
se non ciò che ho da te, o da te io posso avere.
Così ogni giorno, soffro di fame e sazietà,
di tutto ghiotto,
e d'ogni cosa privo.
William Shakespeare
venerdì 1 febbraio 2013
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