martedì 7 febbraio 2012

Lilliput

Lilli si era fermata davanti alla finestra che aveva fatto aprire, in quella precisa parte della parete, perché fosse la sua finestra sulla valle. La valle che aveva percorsa sin da bambina, verso il bosco dei suoi primi giochi in libertà.
Si fermò a guardare il panorama, come faceva quasi ogni giorno, la dolce collina, che gli indigeni chiamavano la Montagna, i campi che cambiavano colore e sagoma ad ogni coltura, le case diroccate, con le pietre e i tetti rovinati dal sole, dalla pioggia e dai venti che flagellavano la valle ed i suoi alberi.
Si soffermava sempre davanti a quella finestra, prima di uscire di casa, come se servisse a ricaricarla, a farla sentire più serena per affrontare il mondo di fuori. Mentre si lasciava andare a quella attenta osservazione di quello stesso paesaggio, che le sembrava comunque sempre diverso, Lilli rigirava tra le mani la busta della lettera che aveva appena finito di scrivere al suo amante.
Guly viveva in un’ altra città, ogni tanto gli scriveva, più spesso gli telefonava, per esprimergli tutti i suoi dubbi, le sue urgenze oggettive, le sue necessità. Era importante per lei parlare e più di ogni altra cosa, sentiva il bisogno di essere cullata dalle parole,   come una bambola tra le braccia di un bimbo, per aprire gli occhi al sorriso predisposto. Sperava, che presto potesse raggiungerla per passeggiare sulla spiaggia e la sera camminare, per la città, con le mani allacciate. Davanti a quella finestra, Lilli si lasciava andare a mille pensieri e fantasie e intanto cercava le soluzioni ai suoi problemi. 
Ogni tanto si incontravano a casa di Guly. Era un’ isola. L’isola delle loro emozioni, delle passioni più intense e mai provate. Fuori dalla porta ogni altro pensiero, ogni altro dolore, risentimento, angoscia, frustrazione. Spesso pranzavano insieme, lei adorava tutto quello che lui lei cucinava, lo aiutava e intanto  gli raccontava i suoi problemi di lavoro o sprazzi della sua vita lontana da lui. Vivevano esperienze e dolori paralleli troppo profondi e troppo inconfessabili per poterne parlare liberamente, ma che erano comunque in loro, in una parte remota della loro testa, a scavare gallerie. Così, tra le braccia di lui, Lilli entrava nell’oblio, si narcotizzava, diventava un’altra donna, un’amante perfetta. Insieme vivevano momenti ineguagliabili. Lei avrebbe avuto anche bisogno di parlare, di perdersi in discussioni improbabili, costruire castelli di carta, e vederli, reggersi in piedi, almeno una volta, insieme a lui. Ma il tempo dei loro incontri era sempre troppo breve, Lilli ne soffriva molto, aveva bisogno di quel tempo, era tutta la sua forza, la sua voglia di vivere, di impegnarsi. Le lunghe separazioni da Guly  la sfinivano.
Un filo sottile e inspiegabile, molto tempo prima, aveva intrecciato le loro vite senza che se ne rendessero conto, ma spesso quel filo si imbrogliava quando qualcosa dentro di loro si spezzava. E ci voleva poi del tempo prima che tornasse a dipanarsi.
Ora Lilli era sopraffatta da un dolore insopportabile, Guly era troppo lontano e lei si sentiva persa. Voleva fargli capire che sarebbe stata comunque e sempre sua, che nessun altro l’avrebbe mai più toccata, che sarebbe stata sempre pronta ad ascoltarlo, proprio come una vera compagna, amante, madre, amica. Così aveva deciso di scrivergli una lettera. Ma quel dolore, che ora le attanagliava il corpo e la mente, le impediva di trovare le giuste parole. Si era ricordata di un brano che aveva letto, molti anni prima, in una raccolta di lettere che  Gustave Flaubert, nell’agosto del 1846, aveva scritto alla sua amica amante Luise Colet, poetessa francese di 10 anni più vecchia di lui.
“…Mi capirai fino in fondo, sopporterai il peso della mia malinconia, le mie manie, i miei capricci, le mie depressioni ed i miei scatti di collera?…Non mi forzerai a niente ed io farò tutto. Comprendimi e non mi accusare. Se ti giudicassi sciocca o leggera ti riempirei di parole, di promesse di giuramenti. Cosa mi costerebbe? Ma preferisco restare al di sotto che al di sopra della verità del mio cuore”.
Lilli appose la firma anzi la sua iniziale, come era avvezza fare, senza farsi scrupolo che quelle frasi non fossero sue, ma esprimevano il concetto in maniera precisa. Era come cercare ed usare le parole di un vocabolario, ma in quel caso erano già messe insieme e nella maniera giusta. In quella lettera, scritta 163 anni prima, le situazioni si ripetevano, Lilli e Guly  avevano,  comunque, quella differenza di età, e l’atmosfera non le sembrava diversa e quelle erano le sole parole che lei avrebbe voluto ascoltare dal suo amante. 
Guardò ancora il panorama, quel giorno non c’era vento, un sole tiepido riscaldava l’aria. Come quella mattina di un tempo lontano, ma sempre presente, al loro porto. Era lì che si erano finalmente trovati, forse innamorati, o che insieme avevano ritrovato un po’ di senso per la loro vita tormentata dai fallimenti? Era lì che quel filo li aveva legati? Sulla banchina del porto si erano presi per mano e baciati tra lo sciacquio del mare e l'odore delle alghe morte.
Lui l’aveva chiamata amore più volte, in quegli attimi fuggevoli in cui si lasciava andare. Lilli si era domandata se era conscio di chiamarla in quel modo, se fosse un messaggio velato, una richiesta di aiuto, o una parola fra mille. Non glielo aveva mai chiesto.
Aveva ancora la busta stretta fra le mani. Quella mattina aveva toccato il fondo, per un momento aveva perso ogni speranza e, come mai, ogni forza. Si era lasciata andare in un tunnel buio e viscido, era precipitata per un tempo infinito. Poi le parole di lui le avevano fatto trovare un appiglio, fragile, piccolo, ma pur sempre un brandello di salvezza. Si ricordò di quando era stata in coma, camminava in un luogo indefinibile e buio ai cui lati si affollavano figure indescrivibili, orrende e saettanti, nessuna speranza di trovare un volto amico, nessuna luce all’orizzonte. Poi il nulla assoluto, il proprio corpo abbandonato. E improvvisamente un lontano ricordo di piccoli occhi castani, cresciuti dentro di lei. Era bastato per farla risvegliare.
Anche adesso non era più tempo di lasciarsi andare, era tempo di ricominciare ad affrontare la vita. Era importante scrivere quella lettera, era importante che il suo amante non perdesse la fiducia in lei, ma poi perché avrebbe dovuto? Non era proprio con lui, che per la prima volta nella sua vita, era riuscita a parlare delle sofferenze, delle debolezze, delle schiavitù che provava e subiva?
E Guly? Non era proprio a lei, che intensamente desiderava e contemporaneamente respingeva, che aveva raccontato i suoi tormenti?
Doveva imbucare la lettera, si avviò verso la posta. La cassetta rossa era lì davanti a lei, infilò la mano, ma tentennò, come se non volesse lasciarla andare. Forse perché sapeva che quelle parole non erano sue, e non era più sicura che la sua relazione fosse un dato di fatto. Ma allora a cosa era servito perdersi, se non per tornare a lottare? Ora la sua storia con Guly sembrava piuttosto una particella di utopia, misteriosamente ingabbiata in un vaso di cristallo. Ogni tanto era concesso togliere il tappo a chiusura stagna ed aspirarne il profumo. Una specie di droga mentale che faceva vivere ad entrambi momenti di estasi, mentre l’orologio del tempo continuava a battere, imperturbabile, e la gente intorno a loro continuava a muoversi a fare passi in avanti, al ritmo di una musica indecifrabile e assordante.
Imbucò la lettera. Chi avesse potuto vedere la busta avrebbe letto come unico indirizzo un nome: Guly.
Non vi si faceva menzione di strade, né di città, ma Lilli si sentì sollevata e pensò: “forse domani basterà prendersi per mano”.  

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