sabato 14 gennaio 2012

iGallery

7 gennaio 2012

 la mia prima mostra dell'anno

I Mutanti










Collettiva d’arte partecipativa che si pone come linea guida quella dell’interazione del fruitore con le opere presentate. Partendo dall’idea, archetipica, del toccare (touch) ormai comune a molti strumenti tecnologici comunicativi si è cercato, evitando il virtuale, di proporre dei lavori “aperti” da completare con il coinvolgimento del pubblico inteso come una sorta di artista capace, con la sua azione, di dar nuova vitalità alle opere. Una mostra dove è vietato non toccare poiché il senso è in divenire. Gli artisti invitati hanno realizzato opere ed installazioni appositamente per l’evento che si pone come innovativa esperienza estetica e percettiva.

iGallery. Ipotesi per un’arte partecipata.
(In)civiltà dell’immagine che logora la forma attraverso l’esasperazione del mostrare e annulla il corpo retrocedendolo ad impuro simulacro di mali. Un eccesso di visionari senza visione che usurano il mondo dimenticandosi delle sue meccaniche logiche per presentarlo come vuota assurdità. La ricerca dell’interessante diventa perdita dell’ingenuità visiva e la linea analitica dell’arte moderna si disperde nell’ossessione del disgusto: “non più vedere, neppure pensare, ma sentire”[1], come la lepre morta che ascoltava le parole di Joseph Beuys. Conseguenza dell’immaginazione al potere è stato lo svuotamento dell’arte che pur, fino alla pop art, manteneva una certa linea antagonista al sistema. Se per uscire da una vuota arte borghese i futuristi dovettero uccidere il “chiaro di luna” e immaginare una Venezia industriale, di cosa ci dovremmo privare oggi per venire fuori da un sistema autoreferenziale e ormai logoro giunto al massimo della sua insensatezza? Installazioni che occupano uno spazio al solo scopo di destrutturarlo, fredda pittura da cavalletto che spreme fin all’ultima goccia le declinazioni dell’informale o che, recuperando solo la superficie illusoria del surrealismo, veste di colori pop l’immaginario contemporaneo sono linguaggi esauriti? Del resto l’estetica relazionale, sostanzialmente materialista, basata sulla “partecipazione” dello spettatore in happening o performance, sembra perdere forza in quanto una “situazione”, per quanto evento strutturato, non sarà mai una parte di mondo o tantomeno tempo vissuto. Nel distaccarsi a priori dalle logiche dell’esistenza (morale ed etica comprese) più che far agire liberamente l’individuo lo porta sostanzialmente verso una regressione; tempo e spazio che agiscono sono già strutturati e impost(at)i dall’artista. Più logico, e forse interessante, sarebbe parlare di “evento”:  “Evento è tutto ciò su cui non c’è accordo percettivo, interpretativo e valutativo” recita la teoria eventualista formulata da Sergio Lombardo con i suoi concetti di minimalità, astinenza espressiva, strutturalità, spontaneità, interattività, eventualità e profondità. Un approccio partecipativo dovrebbe implicare il coinvolgimento attivo del pubblico: non solo vedere o “sentire” ma agire autonomamente a determinati stimoli il meno possibile ambigui, evitare la vuota relazione che sta alla vita come nell’arte l’immagine pubblicitaria sta alla pittura in quanto eccesso del visibile istituzionalizzato. L’invadenza spettacolare delle immagini con la pianificazione del marketing è come la performance che formalizza un episodio e, attraverso l’estetizzazione di tutto il corpo e di tutti i sensi, non fa che “consumare” la vita. Il rischio, lo si intuisce subito, è una sostanziale perdita della libertà personale: più accettiamo e avalliamo l’eccesso e più siamo schiavi di un’estenuazione estetica oltre che di un impoverimento etico e sociale; come l’operaio che lavora alla catena di montaggio ed è meccanizzato nel compiere un’esperienza ormai anestetica. Esperienza allora è la parola chiave se vogliamo tentare il discorso di un’ipotesi di arte partecipata a patto che l’esperienza sia positiva e rivelatrice delle nostre condizioni o permetta quello scarto capace di far nascere in noi uno stimolo di senso. Oggi, tanto nell’arte quanto nella vita, sembra non esserci più un senso (lucido e positivo) sia perché manca un centro e sia perché i vari micro centri sono in conflitto, quanto non in contraddizione, tra di loro. Attribuire un significato a stimoli spesso ambigui è un processo che destruttura, alla lunga, l’unità della persona poiché il processo di completamento può risultare forviante se il fruitore risulta sprovvisto del giusto bagaglio culturale.
L’esperienza, quindi, oltre che stimolante e gratificante deve essere anche qualitativamente qualificata e per ottenere questo bisogna tornare a focalizzarsi sul processo più che sul prodotto, sulla percezione più che sul percepito, sulla costruzione più che sulla disgregazione. E’ esperienza, sono esperienza, tutti quei “modi” (o modalità) che ci mettono attivamente o passivamente alla presenza di oggetti. Oggi l’arte contemporanea è il luogo, istituzionalizzato ma impoverito, della sensibilità personale dell’artista il quale, pur quando realizza atti performativi per il vasto pubblico, concretizza sempre opere da fruire passivamente. L’arte oggi è un esercizio dell’emotività ed è passiva in quanto tutto il vuoto sistema, per funzionare in maniera autoreferenziale, ha bisogno dell’eccesso di stimoli e dell’assenza di giudizio. Partecipare attivamente (e soggettivamente) ad un’opera d’arte, allora, diventa un atto quasi rivoluzionario perché mina dal fondo la tenuta del sistema. Arte come esperienza (art as experience) quindi, e, se vogliamo, arte come partecipazione, e non esperienza come arte. Dall’estetica relazionale siamo arrivati, seguendo Dewey, ad un’estetica empiristica: “l’estetico […] è lo sviluppo chiarificato e intensificato di tratti che appartengono a ogni esperienza normalmente compiuta. Considero questo fatto la sola base sicura su cui poter costruire una teoria estetica”[2]. La crisi dell’esperienza della vita che caratterizza la modernità, e che si traduce in arte povera di senso (ma perché è pur sempre arte del potere che va esattamente in questa direzione), ci priva della libertà di agire come individui ecco perché l’ipotesi di un approccio diverso con l’oggetto “opera” può aiutare una visione diversa di questa post-contemporaneità claustrofobica attraverso semplici gesti: riflettere, toccare, completare, agire. Poiché, però, non stiamo realizzando un freddo esperimento scientifico ne tantomeno la nostra ottica è positivistica, bisogna pur dire che l’esperienza non esaurisce tutta la vita e nemmeno tutta la conoscenza; ci deve essere una conoscenza per connaturalità che si esercita col giudizio attraverso l’intelletto. Un buon modo per evitare questa rigida visione pseudo-scientifica è aggiungere ai concetti di esperienza e partecipazione quello di gioco. Arte come momento di consapevolezza personale, quindi, ma anche come gioco (“un libero gioco di fantasia ed intelletto” per dirla come Kant riguardo al giudizio di gusto) poiché attraverso la libertà “guidata” l’agire porta a scoperte personali difficilmente attuabili diversamente. Una modalità anche per non prendersi troppo sul serio e lavorare con la consapevolezza che solo attraverso ipotesi e sperimentazioni si riesce a ricreare quello strappo, o meglio distanza, tra l’arte e il mondo.
Definire iGallery, data la natura disorganica dell’esposizione, sarebbe forviante. L’idea dell’evento è venuta in seguito alla morte del fondatore di Apple Steve Jobs. Riconoscendolo come figura significativa di questi ultimi anni si era pensato ad una sorta di omaggio. Avevamo individuato nella diversità dei suoi prodotti-icona (iPod, iPad, iPhone) un campo di sperimentazione, in particolare per quanto concerne l’aspetto e il gesto del toccare (touch), gesto dalle infinite valenze e che apre ad interessanti riflessioni sul senso della tecnologia e del suo rapporto, sempre più stretto ed intimo, con l’individuo. Questa relazione personale, insita del resto nell’idea di opera come simulacro (es. il piede consumato del San Pietro di Arnolfo di Cambio), che si sarebbe instaurata con l’opera avrebbe avuto come conseguenza una percezione diversa del dato artistico. Toccare l’opera e interagire con essa, al di fuori però della dimensione virtuale dello strumento tecnologico, comporta un coinvolgimento di tutta la persona che non si deve limitare solo a vedere (e percepire) ma deve completare il lavoro diventando a sua volta “artista”. Vedere e toccare, del resto, va proprio contro l’ottica dell’arte contemporanea istituzionalizzata (e quindi privata di vita e relazione) che si rinviene nei musei, un’arte che non ha avuto nemmeno la possibilità di agire nello spazio e nel tempo, e quindi di storicizzarsi. Naturalmente non sta qui il futuro di un’arte interattiva e di un’estetica virtuale che vuole evolversi seguendo i cambiamenti storico-sociali-tecnologici della società: noi siamo come quegli illustratori che negli anni Cinquanta immaginavano il futuro con modalità diverse da come si è poi evoluto. Scrive infatti Paolo Rosa: “per interattività intendo quella relazione “intercettata” sotto forma di dati informativi, che la distingue in modo netto dalla semplice definizione di interazione, in quanto risulta essere una relazione diretta e in qualche modo più intima. Vale a dire che grazie alle nuove tecnologie si rende possibile interferire sui processi relazionali, raccogliendo attraverso interfacce i più svariati dati sensibili, per trasferirli in uno dei tanti database. Se al posto di utilizzarli, come avviene, per scopi di marketing o di sorve­glianza, riuscissimo virtuosamente a renderli tracce vive e partecipative, avremmo un mezzo straordinario per accrescere il senso di condivisione, di elaborazione costante, che alla fine sono validi strumenti di costru­zione d’identità, di unicità, di appartenenza”[3]. Se esiste ed è esistito un paleo-futuro può esistere allora anche un’arte paleo-interattiva che mostra tutto il suo legame col Novecento storico e, soprattutto, col futurismo per quanto concerne l’aspetto di rottura dei canoni e dei limiti in chiave anti-accademica e il coinvolgimento del pubblico. Una mostra “vintage” ma con tanti orizzonti di senso dettati dalle diverse proposte degli artisti, proposte che spaziano dalla street art dove maggiormente si rinviene l’idea di gioco e partecipazione “anarchica” all’arte concettuale che deve molto alle teorie gestaltiche (psicologia della forma e del colore). Dal coinvolgimento emotivo dettato dal gesto che incide e lascia una traccia alla sostituzione virtuale con l’artista, dalla (ri)creazione modulare di una forma alla materializzazione dell’evento.
Per Dewey fare esperienza equivale sempre a fare un’esperienza “estetica” per la relazione che si instaura tra spazio dell’oggetto e spazio del soggetto; l’arte ha infatti la capacità di “rendere intensa e concentrata l’espe­rienza”. Interagire con l’oggetto artistico aumenta, qualitativamente, la nostra esperienza? Partecipare nell’opera modifica la condizione dell’opera e la nostra? Chi è l’artista e dove finisce (o quando termina) l’opera d’arte? Nell’evento o nella durata? E’ accettabile, nel tempo del virtuale, ancora il contatto e quanto può essere “artistica” la relazione? Queste ed altre domande abbiamo voluto far nascere dall’esposizione che già dal titolo si mostra “ontologicamente” diversa se consideriamo l’ormai celebre lettera I come un elemento accrescitivo e potenziatore del significato e della natura della proposta[4].
Tommaso EVANGELISTA

[1] J. Clair, Breve storia dell’arte moderna, Milano 2011, p. 32.
[2] J. Dewey, Arte come esperienza, Palermo 2007, p. 70
[3] Oltre i confini delle immagini: l’estetica delle relazioni. Conversazione con Paolo Rosa a cura di B. Di Martino, in Studio Azzurro, Tracce, sguardi e altri pensieri, a cura di B. Di Martino, Feltrinelli, Milano, 2007, p. 49.
[4] Riguardo all’influenza del pensiero di Dewey nell’arte e nella società contemporanea si veda L. Russo (a cura di), Esperienza estetica a partire da John Dewey, Palermo 2007.

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