7 gennaio 2012
la mia prima mostra dell'anno
I Mutanti
Collettiva d’arte
partecipativa che si pone come linea guida quella dell’interazione del
fruitore con le opere presentate. Partendo dall’idea, archetipica, del
toccare (touch) ormai comune a molti strumenti tecnologici comunicativi
si è cercato, evitando il virtuale, di proporre dei lavori “aperti” da
completare con il coinvolgimento del pubblico inteso come una sorta di
artista capace, con la sua azione, di dar nuova vitalità alle opere. Una
mostra dove è vietato non toccare poiché il senso è in divenire. Gli
artisti invitati hanno realizzato opere ed installazioni appositamente
per l’evento che si pone come innovativa esperienza estetica e
percettiva.
iGallery. Ipotesi per un’arte partecipata.
(In)civiltà dell’immagine che logora la forma attraverso
l’esasperazione del mostrare e annulla il corpo retrocedendolo ad impuro
simulacro di mali. Un eccesso di visionari senza visione che usurano il
mondo dimenticandosi delle sue meccaniche logiche per presentarlo come
vuota assurdità. La ricerca dell’interessante diventa perdita
dell’ingenuità visiva e la linea analitica dell’arte moderna si disperde
nell’ossessione del disgusto: “non più vedere, neppure pensare, ma
sentire”[1],
come la lepre morta che ascoltava le parole di Joseph Beuys.
Conseguenza dell’immaginazione al potere è stato lo svuotamento
dell’arte che pur, fino alla pop art, manteneva una certa linea
antagonista al sistema. Se per uscire da una vuota arte borghese i
futuristi dovettero uccidere il “chiaro di luna” e immaginare una
Venezia industriale, di cosa ci dovremmo privare oggi per venire fuori
da un sistema autoreferenziale e ormai logoro giunto al massimo della
sua insensatezza? Installazioni che occupano uno spazio al solo scopo di
destrutturarlo, fredda pittura da cavalletto che spreme fin all’ultima
goccia le declinazioni dell’informale o che, recuperando solo la
superficie illusoria del surrealismo, veste di colori pop l’immaginario
contemporaneo sono linguaggi esauriti? Del resto l’estetica relazionale,
sostanzialmente materialista, basata sulla “partecipazione” dello
spettatore in happening o performance, sembra perdere forza in quanto
una “situazione”, per quanto evento strutturato, non sarà mai una parte
di mondo o tantomeno tempo vissuto. Nel distaccarsi a priori dalle
logiche dell’esistenza (morale ed etica comprese) più che far agire
liberamente l’individuo lo porta sostanzialmente verso una regressione;
tempo e spazio che agiscono sono già strutturati e impost(at)i
dall’artista. Più logico, e forse interessante, sarebbe parlare di
“evento”: “Evento è tutto ciò su cui non c’è accordo percettivo,
interpretativo e valutativo” recita la teoria eventualista formulata da
Sergio Lombardo con i suoi concetti di minimalità, astinenza espressiva,
strutturalità, spontaneità, interattività, eventualità e profondità. Un
approccio partecipativo dovrebbe implicare il coinvolgimento attivo del
pubblico: non solo vedere o “sentire” ma agire autonomamente a
determinati stimoli il meno possibile ambigui, evitare la vuota
relazione che sta alla vita come nell’arte l’immagine pubblicitaria sta
alla pittura in quanto eccesso del visibile istituzionalizzato.
L’invadenza spettacolare delle immagini con la pianificazione del marketing è
come la performance che formalizza un episodio e, attraverso
l’estetizzazione di tutto il corpo e di tutti i sensi, non fa che
“consumare” la vita. Il rischio, lo si intuisce subito, è una
sostanziale perdita della libertà personale: più accettiamo e avalliamo
l’eccesso e più siamo schiavi di un’estenuazione estetica oltre che di
un impoverimento etico e sociale; come l’operaio che lavora alla catena
di montaggio ed è meccanizzato nel compiere un’esperienza ormai
anestetica. Esperienza allora è la parola chiave se vogliamo tentare il
discorso di un’ipotesi di arte partecipata a patto che l’esperienza sia
positiva e rivelatrice delle nostre condizioni o permetta quello scarto
capace di far nascere in noi uno stimolo di senso. Oggi, tanto nell’arte
quanto nella vita, sembra non esserci più un senso (lucido e positivo)
sia perché manca un centro e sia perché i vari micro centri sono in
conflitto, quanto non in contraddizione, tra di loro. Attribuire un
significato a stimoli spesso ambigui è un processo che destruttura, alla
lunga, l’unità della persona poiché il processo di completamento può
risultare forviante se il fruitore risulta sprovvisto del giusto
bagaglio culturale.
L’esperienza, quindi, oltre che stimolante e gratificante deve essere
anche qualitativamente qualificata e per ottenere questo bisogna
tornare a focalizzarsi sul processo più che sul prodotto, sulla
percezione più che sul percepito, sulla costruzione più che sulla
disgregazione. E’ esperienza, sono esperienza, tutti quei “modi” (o
modalità) che ci mettono attivamente o passivamente alla presenza di
oggetti. Oggi l’arte contemporanea è il luogo, istituzionalizzato ma
impoverito, della sensibilità personale dell’artista il quale, pur
quando realizza atti performativi per il vasto pubblico, concretizza
sempre opere da fruire passivamente. L’arte oggi è un esercizio
dell’emotività ed è passiva in quanto tutto il vuoto sistema, per
funzionare in maniera autoreferenziale, ha bisogno dell’eccesso di
stimoli e dell’assenza di giudizio. Partecipare attivamente (e
soggettivamente) ad un’opera d’arte, allora, diventa un atto quasi
rivoluzionario perché mina dal fondo la tenuta del sistema. Arte come
esperienza (art as experience) quindi, e, se vogliamo, arte
come partecipazione, e non esperienza come arte. Dall’estetica
relazionale siamo arrivati, seguendo Dewey, ad un’estetica empiristica:
“l’estetico […] è lo sviluppo chiarificato e intensificato di tratti che
appartengono a ogni esperienza normalmente compiuta. Considero questo
fatto la sola base sicura su cui poter costruire una teoria estetica”[2].
La crisi dell’esperienza della vita che caratterizza la modernità, e
che si traduce in arte povera di senso (ma perché è pur sempre arte del
potere che va esattamente in questa direzione), ci priva della libertà
di agire come individui ecco perché l’ipotesi di un approccio diverso
con l’oggetto “opera” può aiutare una visione diversa di questa
post-contemporaneità claustrofobica attraverso semplici gesti:
riflettere, toccare, completare, agire. Poiché, però, non stiamo
realizzando un freddo esperimento scientifico ne tantomeno la nostra
ottica è positivistica, bisogna pur dire che l’esperienza non esaurisce
tutta la vita e nemmeno tutta la conoscenza; ci deve essere una
conoscenza per connaturalità che si esercita col giudizio attraverso
l’intelletto. Un buon modo per evitare questa rigida visione
pseudo-scientifica è aggiungere ai concetti di esperienza e
partecipazione quello di gioco. Arte come momento di consapevolezza
personale, quindi, ma anche come gioco (“un libero gioco di fantasia ed
intelletto” per dirla come Kant riguardo al giudizio di gusto) poiché
attraverso la libertà “guidata” l’agire porta a scoperte personali
difficilmente attuabili diversamente. Una modalità anche per non
prendersi troppo sul serio e lavorare con la consapevolezza che solo
attraverso ipotesi e sperimentazioni si riesce a ricreare quello
strappo, o meglio distanza, tra l’arte e il mondo.
Definire iGallery, data la natura disorganica dell’esposizione,
sarebbe forviante. L’idea dell’evento è venuta in seguito alla morte del
fondatore di Apple Steve Jobs. Riconoscendolo come figura significativa
di questi ultimi anni si era pensato ad una sorta di omaggio. Avevamo
individuato nella diversità dei suoi prodotti-icona (iPod, iPad, iPhone)
un campo di sperimentazione, in particolare per quanto concerne
l’aspetto e il gesto del toccare (touch), gesto dalle infinite valenze e
che apre ad interessanti riflessioni sul senso della tecnologia e del
suo rapporto, sempre più stretto ed intimo, con l’individuo. Questa
relazione personale, insita del resto nell’idea di opera come simulacro
(es. il piede consumato del San Pietro di Arnolfo di Cambio), che si
sarebbe instaurata con l’opera avrebbe avuto come conseguenza una
percezione diversa del dato artistico. Toccare l’opera e interagire con
essa, al di fuori però della dimensione virtuale dello strumento
tecnologico, comporta un coinvolgimento di tutta la persona che non si
deve limitare solo a vedere (e percepire) ma deve completare il lavoro
diventando a sua volta “artista”. Vedere e toccare, del resto, va
proprio contro l’ottica dell’arte contemporanea istituzionalizzata (e
quindi privata di vita e relazione) che si rinviene nei musei, un’arte
che non ha avuto nemmeno la possibilità di agire nello spazio e nel
tempo, e quindi di storicizzarsi. Naturalmente non sta qui il futuro di
un’arte interattiva e di un’estetica virtuale che vuole evolversi
seguendo i cambiamenti storico-sociali-tecnologici della società: noi
siamo come quegli illustratori che negli anni Cinquanta immaginavano il
futuro con modalità diverse da come si è poi evoluto. Scrive infatti
Paolo Rosa: “per interattività intendo quella relazione “intercettata”
sotto forma di dati informativi, che la distingue in modo netto dalla
semplice definizione di interazione, in quanto risulta essere una
relazione diretta e in qualche modo più intima. Vale a dire che grazie
alle nuove tecnologie si rende possibile interferire sui processi
relazionali, raccogliendo attraverso interfacce i più svariati dati
sensibili, per trasferirli in uno dei tanti database. Se al posto di
utilizzarli, come avviene, per scopi di marketing o di sorveglianza,
riuscissimo virtuosamente a renderli tracce vive e partecipative,
avremmo un mezzo straordinario per accrescere il senso di condivisione,
di elaborazione costante, che alla fine sono validi strumenti di
costruzione d’identità, di unicità, di appartenenza”[3].
Se esiste ed è esistito un paleo-futuro può esistere allora anche
un’arte paleo-interattiva che mostra tutto il suo legame col Novecento
storico e, soprattutto, col futurismo per quanto concerne l’aspetto di
rottura dei canoni e dei limiti in chiave anti-accademica e il
coinvolgimento del pubblico. Una mostra “vintage” ma con tanti orizzonti
di senso dettati dalle diverse proposte degli artisti, proposte che
spaziano dalla street art dove maggiormente si rinviene l’idea di gioco e
partecipazione “anarchica” all’arte concettuale che deve molto alle
teorie gestaltiche (psicologia della forma e del colore). Dal
coinvolgimento emotivo dettato dal gesto che incide e lascia una traccia
alla sostituzione virtuale con l’artista, dalla (ri)creazione modulare
di una forma alla materializzazione dell’evento.
Per Dewey fare esperienza equivale sempre a fare un’esperienza
“estetica” per la relazione che si instaura tra spazio dell’oggetto e
spazio del soggetto; l’arte ha infatti la capacità di “rendere intensa e
concentrata l’esperienza”. Interagire con l’oggetto artistico aumenta,
qualitativamente, la nostra esperienza? Partecipare nell’opera modifica
la condizione dell’opera e la nostra? Chi è l’artista e dove finisce (o
quando termina) l’opera d’arte? Nell’evento o nella durata? E’
accettabile, nel tempo del virtuale, ancora il contatto e quanto può
essere “artistica” la relazione? Queste ed altre domande abbiamo voluto
far nascere dall’esposizione che già dal titolo si mostra
“ontologicamente” diversa se consideriamo l’ormai celebre lettera I come
un elemento accrescitivo e potenziatore del significato e della natura
della proposta[4].
Tommaso EVANGELISTA
[1] J. Clair, Breve storia dell’arte moderna, Milano 2011, p. 32.
[2] J. Dewey, Arte come esperienza, Palermo 2007, p. 70
[3] Oltre i confini delle immagini: l’estetica delle relazioni. Conversazione con Paolo Rosa a cura di B. Di Martino, in Studio Azzurro, Tracce, sguardi e altri pensieri, a cura di B. Di Martino, Feltrinelli, Milano, 2007, p. 49.
[4] Riguardo all’influenza del pensiero di Dewey nell’arte e nella società contemporanea si veda L. Russo (a cura di), Esperienza estetica a partire da John Dewey, Palermo 2007.
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