martedì 10 gennaio 2012

Julio Cortázar

Bruxelles1914 – Parigi 1984
Questa notte, cercando la tua bocca
in un’altra bocca
quasi credendoci, perché così
da cieco è questo fiume
che attira nella donna e mi
sommerge fra le sue palpebre
che tristezza nuotare infine verso la
riva del sopore
sapendo che il sopore è questo
schiavo ignobile
che accetta le monete false,
le fa circolare sorridendo.
Scordata purezza, come vorrei
riscattare questo dolore di Buenos Aires, questa
attesa senza pause né speranza.
Solo nella mia casa aperta sul
porto
un’altra volta incominciare ad amarti
un’altra volta incontrarti al cafè
la mattina
senza che tante cose irrinunciabili
fossero accadute
e non dovermi accontentare di questo
oblio che sale
verso il nulla, per cancellare dalla
lavagna i tuoi pupazzetti
e non ritrovarmi soltanto una
finestra senza stelle.
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Se della tua bocca non so che la tua voce
E dei tuoi seni solo il verde o l'arancione 
delle tue bluse, come posso avere la presunzione di
avere di te più della grazia di un'ombra che passa sull'acqua.
Nella memoria porto gesti, la moina che tanto felice mi faceva,
e questo modo di restartene in te stessa, con il curvo riposo
di un'immagine d’avorio.
Non è gran cosa questo tutto che mi resta.
In più opinioni, collere, teorie,
nomi di fratelli e sorelle,
l'indirizzo postale e il numero del telefono,
cinque fotografie, un profumo di capelli,
una pressione di mani piccole fra le quali nessuno direbbe
che mi si nasconde il mondo.
Questo tutto me lo porto senza sforzo, perdendolo poco a poco.
Non inventerò l'inutile menzogna della perpetuità,
meglio passare i ponti con le mani
piene di te,
tirando via a piccoli pezzi il mio ricordo.
Dandolo alle colombe, ai fedeli passeri,
che ti mangino fra canti, arruffio e svolazzi.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Se devo vivere senza di te, che sia duro e cruento,
la minestra fredda, le scarpe rotte, o che a metà dell'opulenza
si alzi il secco ramo della tosse, che latra
il tuo nome deformato, le vocali di spuma, e nelle dita
mi si incollino le lenzuola, e niente mi dia pace.
Non imparerò per questo a meglio amarti,
però sloggiato dalla felicità
saprò quanta me ne davi a volte soltanto standomi nei pressi.
Questo voglio capirlo, ma mi inganno:
sarà necessaria la brina dell'architrave
perché colui che si ripari sotto il portale comprenda
la luce della sala da pranzo, le tovaglie di latte, e l'aroma
dl pane che passa la sua mano bruna per la fessura.
Tanto lontano ormai da te
come un occhio dall'altro,
da questa avversità che assumo nascerà adesso
lo sguardo che alla fine ti meriti.


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