domenica 4 dicembre 2011

Il Vajont

9 ottobre 1963













Vajont è il nome del torrente che scorre nella valle di Erto e Casso per confluire nel Piave, davanti a Longarone e a Castellavazzo, in provincia di Belluno (Italia). La storia di queste comunità venne sconvolta dalla costruzione della diga del Vajont, che determinò la frana del monte Toc nel lago artificiale. La sera del 9 ottobre 1963 si elevò un immane ondata, che seminò ovunque morte e desolazione. 
La stima più attendibile è, a tutt'oggi, di 1910 vittime.    Sono stati commessi tre fondamentali errori umani che hanno portato alla strage: l'aver costruito la diga in una valle non idonea sotto il profilo geologico; l'aver innalzato la quota del lago artificiale oltre i margini di sicurezza; il non aver dato l'allarme la sera del 9 ottobre per attivare l'evacuazione in massa delle popolazioni residenti nelle zone a rischio di inondazione. 
Fu aperta un'inchiesta giudiziaria. Il processo venne celebrato nelle sue tre fasi dal 25 novembre 1968 al 25 marzo 1971 e si concluse con il riconoscimento di responsabilità penale per la previdibilità di inondazione e di frana e per gli omicidi colposi plurimi. 
Ora Longarone ed i paesi colpiti sono stati ricostruiti.La zona in cui si è verificato l'evento catastrofico continua a parlare alla coscienza di quanti la visitano attraverso la lezione, quanto mai attuale, che da esso si può apprendere.




TESTIMONIANZA DEL CARABINIERE VINCENZO CAMPISI SUL VAJONT*
“…La sera del 9 ottobre 1963, ricordo che ero andato a vedere un film al Comunale. Sono uscito alle 22,15 e mi sono avviato velocemente verso la caserma dei Carabinieri, che allora si trovava al n¡ 62 di via Mezzaterra.
All'epoca la ritirata era alle ore 22,30. Ritardare voleva dire prendere una punizione. Entrato in caserma, andai direttamente nella mia camera che in quel momento occupavo soltanto io, anche se di solito ci dormivamo in quattro. Pensai di spedire una lettera ai miei genitori; così presi carta e penna ed iniziai a scrivere. Poco (lopo sentii bussare alla porta. Era un mio collega che mi avvertiva che, per ordine del comandante della stazione, il personale libero doveva subito indossare l'uniforme kaki con cinturone e spallaccio, radunandosi poi nel cortile, in quanto era successo qualcosa di grave e si doveva partire. Cambiatomi in fretta, andai nel cortile della caserma, dove trovai altri colleghi. Tutti ci chiedevamo cosa fosse successo, ma nessuno sapeva niente. 
Verso le ore 23,30 salimmo su un pulmino, il piantone ci aprì la porta carraia e ci fece uscire. Durante il tragitto guardavo attorno di tanto in tanto per vedere in quale direzione andassimo, ma non riuscivo ad orientarmi, anche perché ero stato trasferito a Belluno da poco tempo. Dopo circa 15 minuti, il pulmino si fermò sul lato destro della carreggiata e ci fecero scendere. Vidi il brig. Lorenzi, I'app. Iorio, il carabiniere Petrone, ed altri ancora. Sentivo un odore di legno fresco, e così chiesi ad un collega da dove venisse quell'odore. Mi rispose che là vicino c'era la fabbrica della Faesite, e che eravamo sulla statale Alemagna che va verso Longarone, un nome che avevo già sentito, ma che non mi diceva niente perché non c'ero mai stato. Arrivarono altre macchine: polizia, finanza, alpini, vigili del fuoco. Il brig. Lorenzi venne da noi dopo aver parlato col commissario, e ci raccontò che un pezzo di montagna, staccatosi dal monte Toc, era caduto nel bacino della diga di Longarone.
L'acqua era fuoriuscita, distruggendo il paese e causando molte vittime. Dovevamo quindi andare là e cercare di soccorrere chi ne aveva bisogno. Il brigadiere ci disse di seguirlo e ci avviammo a piedi verso Longarone.
Fatte poche centinaia di metri i miei occhi videro cose mai viste prima: macchine capovolte, animali morti gonfi con le zampe all'aria, tronchi d'albero e mobili coperti di fango. Più si andava avanti e più il disastro appariva terrificante. Si vedevano cadaveri dappertutto, e oggetti di ogni tipo sommersi nel fango. Col chiaro di luna e con le torce in dotazione cercavamo di vedere se c'era qualcuno che aveva bisogno d'aiuto. 
Arrivammo in un punto dove c'erano sulla statale le rotaie contorte della ferrovia che passava là vicino. Ci dividemmo in gruppi. Io e il collega Petrone ci avviammo verso una casa che si trovava vicino ad un campanile diroccato, e che era rimasta miracolosamente in piedi. La casa al pianterreno era stata sventrata ed era piena d'acqua e di fango. Salimmo al piano superiore e trovammo in una stanza una signora anziana, una ragazza e un bambino. Piangevano tutti, ed erano terrorizzati e infreddoliti. Non avevano nemmeno la forza di parlare. Quando ci videro si fecero coraggio e ci chiesero se c'era stato il terremoto. Dicevano di aver sentito un forte boato; la luce se n'era andata e poi il silenzio. Raccontammo l'accaduto dicendo loro di tranquillizzarsi e promettendo di tornare il mattino dopo. Li salutammo ed uscimmo, continuando a camminare. 
Si vedevano case rase al suolo. Famiglie intere giacevano nel letto pieno di fango, foglie ed altri materiali. Notammo, guardandoci intorno, che ormai eravamo in tanti impegnati nelle ricerche. Ad un certo punto sentimmo dei lamenti, ma non capivamo da dove venissero. All'improvviso qualcuno gridò: "Qui, qui!". Accorremmo e vedemmo solo una mano che spuntava dal terreno. Incominciammo a scavare con le mani, poi arrivarono alcuni pompieri con delle pale e si cominciò a scavare delicatamente tutt'intorno, per non fare del male a chi giaceva là sotto. Dopo mezz'ora riuscimmo finalmente a portare alla luce una ragazza di circa sedici anni. Era viva, ma tutta gonfia e sfigurata. Un sottotenente medico le fece una puntura, I'avvolse con una coperta e la portò subito via. Per tutti noi fu un momento di commozione e di gioia. Continuammo a cercare, ma inutilmente: sembrava un deserto. Cercammo la caserma dei Carabinieri, ma anch'essa era scomparsa.
L'indomani scoprimmo che erano morti tutti. Solo due carabinieri si erano salvati, perché si trovavano in perlustrazione a Codissago…
 *Intervento scritto nel giugno 1995.

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