1968
articolo pubblicato su Rinascita il 7 luglio del 1968
Da
Valle Giulia in poi, i moti di piazza non furono più gli stessi. Cambiarono
slogan e scritte murali. Gli studenti che all'inizio gridavano di volere «L'immaginazione
al potere» e che minacciavano «Una risata vi seppellirà»,
passarono ai più bellicosi: «Na-na-na-na-na-NAPALM!» e «Fascisti,
borghesi, ancora pochi mesi», oltre al militante «Viva Marx, viva
Lenin, viva Mao Tze Tung».
Cambiò anche l'atteggiamento di chi andava in corteo. I vecchi leader del Sessantotto, esclusi quelli «pentiti», sostengono che la repressione fu durissima, e che se nelle manifestazioni fecero la loro comparsa i servizi d'ordine armati fu solo per difendersi dagli attacchi brutali della polizia.
Sta di fatto però, ad esempio, che gli arrestati di Valle Giulia furono rilasciati subito dopo su pressione del governo, che diede incarico al rettore D'Avack di riaprire l'Università di Roma. Gli studenti che il 1° marzo avevano attaccato architettura per cacciare la polizia e far cessare la serrata avevano dunque ottenuto il loro scopo.
E fu sempre un rappresentante del governo, il nuovo ministro della Pubblica Istruzione Sullo, in dicembre, a condonare i provvedimenti disciplinari emessi dal liceo Mamiani contro i duecento studenti protagonisti delle occupazioni.
E sta di fatto anche che nel 1968 la reazione della polizia e del governo italiano fu di gran lunga meno dura di quanto avvenne in tutti gli altri Paesi del mondo.
Ad esempio, in Francia. Durante il «mitico maggio», gli studenti occuparono strade e piazze, innalzarono barricate, incendiarono centinaia di macchine. Solo durante gli scontri al Quartiere Latino, ci furono 123 feriti fra i poliziotti e 1500 fra i civili (compresi molti passanti). Ma quando De Gaulle decise che era venuto il momento di ripristinare l'ordine («La chienlit c'est finie», la carnevalata è finita, disse) a Parigi arrivarono i carri armati. Undici organizzazioni politiche furono messe al bando, 115 stranieri fra cui il tedesco Daniel Cohn-Bendit detto «Dani il rosso», capo del «Movimento 22 Marzo» e fra gli ispiratori della rivolta, furono espulsi; il Parlamento venne sciolto per indire nuove elezioni, che si rivelarono un trionfo per «il generale». In un mese di scontri, furono cinque i morti fra i manifestanti. Urlavano gli studenti francesi durante l'occupazione della Sorbona: «Ce n'est qu'un début, continuons le combat», non è che l'inizio, continueremo a combattere. Ma il loro Sessantotto durò poco più di trenta giorni.
E non durò molto di più in Germania o in Spagna, dove fu dichiarato lo stato d'emergenza. O a Città del Messico, dove il 3 ottobre in piazza delle Tre Culture la polizia aprì il fuoco con le mitragliatrici su diecimila studenti in manifestazione: i morti furono trecento. Il 20 gennaio 1969, a Tokio, la polizia entrò nell'università occupata e fece settecento arresti. E non parliamo di ciò che accadde a Praga durante la famosa «primavera». Solo in Italia il Sessantotto è durato più di dieci anni.
Certo sarebbe ingenuo spiegare la longevità della contestazione italiana con la non eccessiva durezza della risposta delle istituzioni; e sarebbe criminale dolersi del fatto che in Italia la polizia picchiò e sparò meno che altrove. Ma resta il fatto che da noi la risposta dello Stato alla contestazione fu meno dura che all'estero, e parlare di repressione è esagerato. Senz'altro le forze dell'ordine italiane reagirono in alcuni casi con durezza eccessiva o anche sciagurata: ma non nei primi mesi del 1968, non all'inizio della protesta.
E comunque non si può sostenere che quella del «movimento» fu solo una violenza di legittima difesa. Una volta ideologizzata e incanalata nei binari del marxismo-leninismo o del maoismo, la protesta non poté che diventare rivoluzionaria e, quindi, aggressiva e violenta.
Cambiò anche l'atteggiamento di chi andava in corteo. I vecchi leader del Sessantotto, esclusi quelli «pentiti», sostengono che la repressione fu durissima, e che se nelle manifestazioni fecero la loro comparsa i servizi d'ordine armati fu solo per difendersi dagli attacchi brutali della polizia.
Sta di fatto però, ad esempio, che gli arrestati di Valle Giulia furono rilasciati subito dopo su pressione del governo, che diede incarico al rettore D'Avack di riaprire l'Università di Roma. Gli studenti che il 1° marzo avevano attaccato architettura per cacciare la polizia e far cessare la serrata avevano dunque ottenuto il loro scopo.
E fu sempre un rappresentante del governo, il nuovo ministro della Pubblica Istruzione Sullo, in dicembre, a condonare i provvedimenti disciplinari emessi dal liceo Mamiani contro i duecento studenti protagonisti delle occupazioni.
E sta di fatto anche che nel 1968 la reazione della polizia e del governo italiano fu di gran lunga meno dura di quanto avvenne in tutti gli altri Paesi del mondo.
Ad esempio, in Francia. Durante il «mitico maggio», gli studenti occuparono strade e piazze, innalzarono barricate, incendiarono centinaia di macchine. Solo durante gli scontri al Quartiere Latino, ci furono 123 feriti fra i poliziotti e 1500 fra i civili (compresi molti passanti). Ma quando De Gaulle decise che era venuto il momento di ripristinare l'ordine («La chienlit c'est finie», la carnevalata è finita, disse) a Parigi arrivarono i carri armati. Undici organizzazioni politiche furono messe al bando, 115 stranieri fra cui il tedesco Daniel Cohn-Bendit detto «Dani il rosso», capo del «Movimento 22 Marzo» e fra gli ispiratori della rivolta, furono espulsi; il Parlamento venne sciolto per indire nuove elezioni, che si rivelarono un trionfo per «il generale». In un mese di scontri, furono cinque i morti fra i manifestanti. Urlavano gli studenti francesi durante l'occupazione della Sorbona: «Ce n'est qu'un début, continuons le combat», non è che l'inizio, continueremo a combattere. Ma il loro Sessantotto durò poco più di trenta giorni.
E non durò molto di più in Germania o in Spagna, dove fu dichiarato lo stato d'emergenza. O a Città del Messico, dove il 3 ottobre in piazza delle Tre Culture la polizia aprì il fuoco con le mitragliatrici su diecimila studenti in manifestazione: i morti furono trecento. Il 20 gennaio 1969, a Tokio, la polizia entrò nell'università occupata e fece settecento arresti. E non parliamo di ciò che accadde a Praga durante la famosa «primavera». Solo in Italia il Sessantotto è durato più di dieci anni.
Certo sarebbe ingenuo spiegare la longevità della contestazione italiana con la non eccessiva durezza della risposta delle istituzioni; e sarebbe criminale dolersi del fatto che in Italia la polizia picchiò e sparò meno che altrove. Ma resta il fatto che da noi la risposta dello Stato alla contestazione fu meno dura che all'estero, e parlare di repressione è esagerato. Senz'altro le forze dell'ordine italiane reagirono in alcuni casi con durezza eccessiva o anche sciagurata: ma non nei primi mesi del 1968, non all'inizio della protesta.
E comunque non si può sostenere che quella del «movimento» fu solo una violenza di legittima difesa. Una volta ideologizzata e incanalata nei binari del marxismo-leninismo o del maoismo, la protesta non poté che diventare rivoluzionaria e, quindi, aggressiva e violenta.
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